La libertà meno egoista

Come in ogni evento planetario, capace di sconvolgere il mondo, anche per l’emergenza del Covid 19 si apre la lotta per l’egemonia. Egemonia del processo di cambiamento, ma prima di tutto dell’interpretazione universale del fenomeno, della capacità di leggere la fase rivoluzionaria e dell’autorità politica e morale per indirizzare e guidare i nuovi equilibri che nasceranno.

Responsabilità è dunque la parola chiave dell’epoca. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, è la vera cifra di questa fase 2 che si è appena aperta, con un primo parziale allentamento del blocco totale col lockdown. Se dovessimo trovare una formula che riassuma il significato di questo mutamento potremmo dire che stiamo passando appunto dalla necessità alla responsabilità.

Questo significa che dopo la prima fase delle misure imposte dai governi, e dell’obbedienza indispensabile dei cittadini, una parte rilevante del meccanismo combinatorio tra libertà e protezione in cui stiamo entrando è affidata alla nostra coscienza sociale e alla consapevolezza della minaccia collettiva ancora in atto.

Il lockdown è infatti una chiusura generale indiscriminata, che annulla la vita sociale per non esporla al contagio. In questo senso si tratta di una costrizione democratica, una contraddizione in termini imposta dall’emergenza che spinge a una sospensione dei nostri diritti per proteggere la nostra incolumità: uno stato eccezionale – e in quanto tale transitorio per definizione – che abbiamo accettato in nome della paura e della sorte sperimentale che ha costretto il nostro Paese a fare da cavia occidentale per una minaccia sconosciuta.

Oggi abbiamo l’impressione che grazie alle curve discendenti dei contagiati, dei malati gravi e finalmente dei morti si sia ridotta la paura. In realtà si è ridotta l’eccezione dentro la quale vivevamo, dal punto di vista certamente sanitario ma anche politico e legislativo, nell’esercizio cioè del potere. Restringendosi la presa dell’eccezione, diminuisce di conseguenza il potere impositivo, prescrittivo e potremmo dire disciplinare del governo: con le norme erga omnes e le misure totalizzanti che lo portavano a regolare lo spazio e il tempo nel quale viviamo quotidianamente, dosando al minimo le nostre relazioni interpersonali e disarmando il corpo sociale nella sua dimensione pubblica.

Appena questo succede, in parallelo la soggettività degli individui ritrova forma, espressione e soprattutto indipendenza. Noi traduciamo questo passaggio, com’è naturale, in quote di libertà: di movimento, soprattutto, di lavoro, di interazione. Ma in realtà quella che viene investita direttamente dalla nuova fase più che la nostra libertà è proprio la responsabilità di ognuno. Intesa, in questa circostanza che resta particolarissima e pericolosa, come capacità di ognuno di noi di sviluppare una risposta soggettiva alla minaccia virale che ancora permane alta, o come disponibilità individuale a dotarci di norme autonome di comportamento capaci di salvaguardare noi e gli altri, proprio mentre riprendiamo a camminare per le strade delle nostre città e torniamo al lavoro.

Siamo dunque più liberi. Ma proprio per questo abbiamo più responsabilità, siamo più coinvolti nella gestione della pandemia, diventiamo soggetto e non soltanto oggetto di una strategia di contenimento, esercitiamo in proprio una quota della politica di contrasto al virus, e non la subiamo più soltanto. Cambia così la prospettiva: dopo aver ubbidito al potere, ovviamente giudicandolo ad ogni passo, adesso tocca a noi.
In questo senso il governo ci passa la staffetta, proprio quando usciamo di casa, perché la riuscita della fase 2 dipende da noi, dalla conoscenza che abbiamo sviluppato sulla pericolosità del virus, dalla consapevolezza che l’allentamento del lockdown necessariamente ci espone di più al pericolo, dalla coscienza del doppio ruolo di unto-untore che ognuno di noi può ancora rivestire, e quindi dell’interdipendenza speciale tra le persone come elemento del contagio e della sua protezione.

Una gestione irresponsabile da parte nostra di questo primo spiraglio di libertà riporterebbe la cappa della chiusura sul Paese, con un contraccolpo economico, morale e psicologico non calcolabile. Ma soprattutto vanificherebbe i sacrifici cui tutti ci siamo assoggettati per questo lungo periodo di quarantena, rendendoli inutili. In questo senso la responsabilità va esercitata non solo per noi stessi e per gli altri ma anche nei confronti delle vittime del Covid 19, un lutto che pesa certo sulle famiglie colpite, ma deve far parte di un nuovo sentimento nazionale.

E questo è il punto. Perché la metamorfosi provocata dal virus deve oggi riguardare anche il concetto di libertà, così come lo abbiamo custodito e sviluppato nei giorni della separazione sociale. Una libertà meno egoista, che non significhi più sentirsi liberati dai vincoli di società che ci legano agli altri in una comunità di destino, pur nelle ovvie differenze: anzi, una libertà che in questi mesi in cui è stata condizionata per forza di cose ha saputo arricchirsi di porzioni impreviste di disponibilità e persino di elementi inediti di generosità. E oggi può generare una soggezione volontaria alla necessità residua.

Vale per il cittadino, vale per il mondo politico. Anche il governo deve entrare psicologicamente nella fase 2 non solo modulando l’emergenza come sta facendo ma riducendo il clima d’eccezione fin dove è possibile. Questo significa ritornare appena si può nella normalità del processo legislativo e riportare il Parlamento al pieno controllo: ritrovando una normalità anche nel meccanismo di comunicazione al Paese, cercando di ridurre l’ansia e soprattutto la confusione. Non servono governi speciali, per unire culture e prassi politiche incompatibili. Serve un sistema consapevole di sé e della crisi speciale che il Paese sta vivendo, capace di un concorso di responsabilità da ruoli e funzioni diversi, dove ognuno porta la sua libertà con un nuovo senso del limite e dell’insieme. Questo è il vero cambiamento che deve nascere dal virus, quando diciamo che il dopo non sarà più come prima. Purché sappiamo che il dopo è adesso.

 

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