Sarebbe stato di lì a qualche giorno il compleanno di N. C’erano già stati tanti compleanni durante il lockdown: sua figlia aveva avuto una torta in terrazzo, applaudita dai vicini di casa, tre ringhiere più in là. E per un’amica avevano organizzato una festa a sorpresa su Houseparty. Poi, dicevano tutti. Poi, dopo, oltre, quando. Tutti avverbi pensati dai vivi per l’aldilà, da dirsi sui pulpiti, da promettersi alle elezioni, da scriversi nelle lettere d’amore. La pandemia ne aveva cambiata la valenza: gli avverbi non potevano conservare lo stesso spirito, non sapevano più riferirsi all’ora e qui.
Se mutavano spazio e tempo, mutava l’uso che ne veniva fuori, di tutto: delle strade deserte, dei cieli non più attraversati dagli aerei, dei fogli del calendario sospesi tra febbraio e aprile, della Pasqua, del giorno e della notte, della domenica e del mercoledì, degli operai all’alba nelle metro spettrali, delle ruote sgonfie alle bici in strada. Poi, dopo, oltre, quando avremmo festeggiato per bene, quando saremmo tornati a festeggiare. Ci si prometteva bottiglie e torte, candeline e musica. Ma perché quegli avverbi tornassero a significare qualcosa bisognava attraversare questo lungo corridoio bianco d’ospedale, soli, fingendo di non aver paura, oppure non fingendo affatto, ma comunque: un passo dopo l’altro, un piede davanti all’altro guardando bene a terra e solo mezzo metro più in là. Nessuno riusciva ad alzare lo sguardo fino alla porta, del resto non era richiesto né necessario. Andare: poi, dopo, oltre, quando.
N. avrebbe compiuto gli anni, e N. stava al di là della finestra, al di là di quella cortina di palazzi dei quali ora lei conosceva i ritmi di veglia e di sonno: sapeva d’improvviso tutto dei suoi dirimpettai, gente di cui non conosceva neppure il nome né avrebbe voluto.
Eppure una sera alle 21 ci si era salutati con le torce dei telefonini accesi.
Tra lei e il compleanno di N. ora c’era quel palazzo pieno di gente e una linea ferroviaria interrotta e posti di blocco, e autocertificazioni, e un Appennino. Era, anche N., soggetto alla valenza di quegli avverbi: e così pareva più facile dimenticarsi che era già tutto clandestino, nascosto, segreto. La pandemia era diventata la più impensabile delle scuse per raccontarsi la storia in un altro modo: che lei non avrebbe potuto festeggiare con lui e i suoi amici nella casa grande con le soglie di pietra (che conosceva solo da una descrizione fugace, un giorno, dopo l’amore, in uno di quei discorsi qualunque che si fanno dopo l’amore e che sono più belli dell’amore stesso) perché l’intera Nazione non avrebbe potuto, perché non ci sarebbe stata una festa, perché dividevano quella condizione con tre miliardi di esseri umani sulla terra. Invece no. Invece era perché erano amanti e basta, e lei non era nessuno in quella vita lì, dall’altra parte del vetro, così come N. non era nessuno qui: dentro il lockdown, nell’atmosfera rallentata dal silenzio, dai nervi da tenersi a bada, i pianti da consumarsi in bagno, nell’accappatoio, per non farsi sentire dalle ragazze, come piccolo estremo atto di responsabilità quando tutto il resto della responsabilità quotidiana era falsata, una responsabilità da cui erano sollevati tutti. Bisognava sorridere, informarsi, cucinare, lavarsi le mani, evitare che le ragazze girassero in tondo, evitare di pensare alla collana di bare che sfilava incessante per le strade: e però tenerne il conto, come si teneva segretamente il conto degli starnuti. E quanto tempo è passato tra un colpo di tosse della piccola Serena e il successivo? Chiamare i nonni, misurare la febbre, imparare a sviluppare una curva da una serie di numeri, sognando di essere passati dall’altra parte del picco, quello da cui si scivola giù. Poi basta: regole, obbedire, che la coscienza critica si sopisse o si esercitasse dentro le mura domestiche o ancora più dentro, dentro di noi.
Ma, se pure ogni casa senza malati era uguale all’altra, cosa ne sapeva N. della sua casa? Non sarebbe mai riuscita a dirgli che guardando Serena davanti al computer, collegata in remoto con i suoi compagni e i suoi professori, le aveva scoperto uno sguardo che non conosceva: dunque sua figlia aveva quello sguardo quando era fuori casa, dunque sua figlia aveva quello sguardo.
C’è un segreto, negli amori clandestini, che resta segreto anche agli amanti stessi: ed è l’ingombro e la gloria dell’altra vita.
Gli amanti si incontrano alla fine di un treno, alla fine di una giornata, dentro un’auto fermandosi per strada a prendere le birre. Scherzano negli specchi che li riflettono assieme. Fanno il broncio prima di lasciarsi, oppure si fanno coraggio e vanno via sorridendo, però poi vanno. Cambiano le geografie, l’ordine dei giorni nell’agenda: ma non accedono mai al segreto, perché il segreto è sacro e ciò che è sacro non va veduto.
La pandemia aveva disvelato l’ultimo paravento: il desiderio di raccontarsi come si era in questi giorni grigi, la necessità di farlo negli stessi spazi che si dividevano con la famiglia, l’inventario di fotografie dei giorni belli quando esisteva l’altro, l’esterno e la vacanza. La paura, più di ogni altra cosa, la paura di perdere tutto, il lavoro, la vita e quel bagliore intravisto: e N. le aveva mandato una foto di suo figlio abbracciato al cane, un’altra con la faccia immersa nel gelato. Così lei aveva fatto il computo dei cromosomi, separato gli occhi dalle ciglia, gli zigomi dalle mani, aveva ritrovato qualcosa dell’uomo con cui godeva ma pure perso tutto il resto: perso l’altare della famiglia e il suo rito privato. Era una cosa triste e dolce insieme. Una cosa a cui non avrebbe mai pensato se.
Così, da sola, senza dirgli nulla, mentre fuori il mondo in oblio o in funerale, la fronte accosta al vetro della finestra, aveva riconosciuto l’antica fiamma. E poi, dopo, oltre, quando chi poteva dirlo, ma adesso: si sentiva viva.