Primo gennaio 2020. Mentre tutto il Pianeta, ignaro di ciò che lo attende, festeggia il nuovo anno, a Wuhan stanno per iniziare i cento giorni che sconvolgeranno il mondo: alla vigilia di Capodanno le autorità cinesi informano l’Oms che in quella città ci sono casi di polmonite di origine sconosciuta. In quel momento la nostra vita cambia come mai avremmo potuto immaginare.
Oggi, al 100° giorno di emergenza, contiamo un milione e mezzo di contagiati, 90mila morti, metà della popolazione mondiale chiusa in casa. Alle prime immagini “esotiche” di cinesi con la mascherina pensavamo: non toccherà mai a noi. Ora si va al supermercato bardarti come in una guerra batteriologica, e quasi non ci si fa più caso. Persino darsi il gomito, una prima alternativa alla stretta di mano e all’abbraccio, è subito diventato un tabù perché infrange quella barriera invisibile che ci circonda a un metro da noi. Il ritorno alla normalità è un miraggio lontano, almeno quanto un vaccino efficace contro il coronavirus, dunque non prima di un anno.
Nel frattempo, ci dicono gli esperti, dovremo rinunciare ai luoghi affollati, stadi, concerti, congressi, cinema. Si riprenderà a viaggiare ma bisognerà vedere come compagnie aeree e ferroviarie riusciranno a conciliare i bilanci con il garantire le distanze a bordo (e quindi due terzi di passeggeri in meno). Lo smart working, le videoconferenze e le lezioni a distanza diverranno la norma.
Un altro mondo, in soli 100 giorni. Mai nella storia dell’umanità, un cambiamento così radicale era stato tanto repentino. Sappiamo perché: in passato i virus viaggiavano con le carovane, su velieri o al massimo treni, oggi lo fanno in business class. In poche settimane il Covid 19 dalla Cina è rimbalzato in Corea del Sud e poi in Iran e in Europa, fino a raggiungere gli Stati Uniti, che oggi sono la nazione più colpita con oltre 451mila contagiati.
Ovunque si è ripetuto lo stesso meccanismo: la sottovalutazione di ciò che era accaduto nei Paesi colpiti con qualche settimana di anticipo, l’ostentazione da parte dei politici di avere la situazione sotto controllo e infine una precipitosa corsa verso le stesse misure d’emergenza adottate dagli altri. Le immagini del lockdown e gli ospedali costruiti in pochi giorni a Wuhan si sono replicate pressoché identiche ovunque.
Ma i 100 giorni che sconvolsero il mondo hanno avuto un’incubazione assai più lunga di quella del coronavirus. Decenni in cui gli esseri umani hanno devastato habitat e rotto equilibri naturali senza preoccuparsi delle conseguenze. Subito dopo l’allarme ufficiale cinese, il primo gennaio 2020, viene chiuso il mercato del pesce di Wuhan: è il luogo indiziato come punto di partenza dell’epidemia. Nelle settimane successive ci saranno conferme e smentite, ma una cosa è certa: il coronavirus è passato da un animale selvatico agli umani. Era stato previsto che potesse accadere, da studiosi e divulgatori come l’americano David Quammen che sullo spillover, la tracimazione di un virus da una specie all’altra, aveva scritto un bestseller internazionale nel 2012.
Questi 100 giorni che resteranno nella storia si chiudono con il premier britannico Boris Johnson ricoverato in terapia intensiva. Perché il coronavirus non fa distinzione: colpisce i potenti e chi non conta nulla, soprattutto se si ignorano le misure consigliate dagli esperti. Johnson, che si vantava di continuare a stringere mani, lo ha imparato drammaticamente a sue spese. L’altro ieri, 8 aprile, è stata infine riaperta Wuhan, dopo 76 giorni di lockdown. Ci insegna che se ne esce. Con pazienza, metodo e cautela, ma se ne esce.