Nell’ecatombe lombarda ci sono sicuramente responsabilità politiche. Che precedono di un bel po’ la gestione attuale, molto modesta e però tributaria di vent’anni (almeno) della precedente dittatura aziendalista, che per dirla come va detta ha trasformato il Welfare in un business, affossandolo: perché il Welfare non è un business, un ospedale non è un’azienda, la salute non è una merce, eccetera eccetera. La Lega è solo la protagonista, tardiva, dei titoli di coda, la trama era stata già decisa da altri, ben più motivati, ben più potenti, ben più ricchi.
Si devono spendere però due parole di compassione per i dissennati fratelli lombardi, ai quali la religione del lavoro è costata, in questo caso, la vita. Il popolo del “non si chiude”, brava gente e però monoculturale, confindustriali lillipuziani, i magutt (manovali) bergamaschi tal quali i padroni delle acciaierie, lavoro lavoro lavoro, il resto è solamente un impiccio, una deviazione dalla via maestra. Brava gente, insisto, ne conosco i sorrisi franchi, lo sguardo chiaro, le famiglie premurose, le case lustre, i capannoni operosi. Ma già vent’anni fa, decollando da Orio al Serio, il cielo padano era una palude di smog, un’infezione manifesta. C’è una pagina tremenda di Ian McEwan, grande scrittore inglese, su come è brutto il cielo di Lombardia quando è brutto.
L’aria come una discarica, l’acqua come una discarica, la terra come una discarica, la vita intera immolata, come un capretto, sull’altare della produzione. I lombardi si sono dati i governi che volevano: li hanno votati. In maggioranza hanno sempre, dico sempre, ignorato ogni possibile critica, o correzione, alla religione del profitto. I conti devono farli loro, e tra di loro.