Non si esce di casa senza rischiare qualcosa. Ma se si rimane chiusi in casa si muore di depressione ben prima di morire di sete e di fame. Dunque dovremo e vorremo uscire, e ricominciare a vivere, cercando di minimizzare il rischio. Questo, in estrema sintesi, il problema che ci sta di fronte, di qui a poco.
Le disposizioni delle autorità e degli esperti conteranno parecchio, sempre che siano sensate, ben spiegate e non troppo diverse Regione per Regione, come se vivessimo ancora nell’Italia dei Principati e delle Signorie. Ma ancora di più, credo, conterà l’umore con il quale ognuno di noi vivrà la nuova vita. O accetteremo i limiti – più laschi ma sempre limiti – come una forma di convivenza necessaria e perfino ingentilita (non alitarci in faccia, non sgomitare, sapere aspettare il nostro turno), o li subiremo come un sopruso, un affronto, un’amputazione. È dentro questa forbice che si giocherà il nostro destino sociale.
Il problema, non da poco, è che il concetto di limite dovrà essere riesumato dal sarcofago nel quale è stato rinchiuso molto tempo fa. È un concetto impopolare, tipicamente di minoranza, maneggiato con estenuata tenacia da conventicole ambientaliste, autorevoli scocciatori come il club di Roma, studiosi molto meno ascoltati di quanto sia oggi il più scarso dei virologi e spesso tacciati di essere dei menagramo.
Di qui in poi, per forza di cose, “limite” diventerà un concetto pop. Nessuno può immaginare come andrà finire; sarà comunque un esperimento affascinante di terapia di massa sotto costrizione. La prima fase, il cosiddetto lockdown, non è andata malissimo.