Ho deciso di intraprendere il Cammino di Santiago nel 2019. Era un anno proprio del cavolo (si può dire?). Una lunga storia d’amore (forse) finita non troppo bene (sul fatto che sia terminata potrei dire… per fortuna, sul non troppo bene ci sarebbero delle riflessioni da fare ma… andiamo avanti!), una trombosi celebrale, la malattia molto grave di mia madre.
Ho pianto tanto, mi sono disperata, avevo bisogno di staccare, fare i conti solo con me stessa, con le mie ansie, con i miei demoni, con le mie paure ma soprattutto con la mia forza. Mi sembrava di aver vissuto un anno terribile, di certo non avrei potuto immaginare la pandemia del 2020…
Considerando che scrivere mi è sempre piaciuto e avrò, in questi giorni, molto tempo per farlo, ho deciso di donare, a voi, ma soprattutto a me, una specie di rubrica in cui, passo dopo passo (scusate il gioco di parole) racconterò la mia storia.
Ma partiamo dal principio. Ho chiesto ai miei genitori cosa ricordano del giorno in cui ho iniziato a camminare. Mio papà ha fatto spallucce dicendomi che non sono più una bambina e non si può ricordare per filo e per segno cos’ho fatto 32anni fà… è il suo modo di dirmi che è ora che smetta di fare domande a cui non sa rispondere.
Mamma invece ha fatto un breve racconto tenero, piuttosto approssimativo, di me che le vado incontro tentennando e sculettando al suo ritorno dal lavoro. In realtà ho avuto l’impressione che non se lo ricordasse molto bene, ma anche su questo, sorvoliamo.
Poi mi ha detto che ero bellissima, biondina, boccolosa, con gli occhi chiari e furbetti (ogni scarrafone è bello a mamma sua) che ero simpatica e buffa ma facevo un pò di casini: arrivavo ai cassetti, li mettevo sotto sopra, tiravo fuori le maglie, le buttavo sul pavimento e mi ci sedevo sopra. Aprivo gli armadi, mi ci infilavo dentro, mi spuntava solo il culotto tondo con il pannolone e ovviamente pensavo di non essere vista. Rovesciavo soprammobili, scappavo ovunque, mi attaccavo alle gambe degli sciagurati che incontravo pensando di arrampicarmici come fossero un albero, rompevo le scatole… su questo mia sorella saprebbe raccontare bellissimi aneddoti ma non ci interessano, vero? 🙂
“Nessun particolare emozionante, poetico, nessuna storia da tramandare ai nostri figli” ho detto ad Ale sorridendo “nessun dettaglio speciale: camminare è facile, è una cosa normale, lo fanno tutti, tutti lo sanno fare.”
E’ incredibile eppure, non ci si rende conto della fortuna che abbiamo nel poter camminare. E’ come parlare, è come respirare, è come sentire. Ci pare normale! Nemmeno io ci ho pensato per anni, finchè, circa 1o anni fà, mi sono rotta due vertebre, una sacrale e una coccigea, cadendo da una sedia (non ridete, per favore!). Sono stata costretta due mesi sdraiata di fianco, sul divano, come Paolina Borghese, tantissimi libri, film, cioccolatini (lil regalo di chi fa visita a una persona temporaneamente malata), la frustrazione di non potersi muovere (e di accumulare kg sul sedere), tanto che appena ho potuto ho ripreso a camminare e poi a correre sul posto, davanti alla tv, in salotto, sudando come un atleta (un pò come sto facendo ora intorno al tavolo per passare il tempo).
Avevo voglia di muovermi e questo è stato il primo campanello d’allarme: forse stavo diventando una persona attiva.
Io che ero stata una campionessa mondiale di pigrizia, io che riuscivo a mettermi il pigiama il venerdì e togliermelo il lunedì, io che ho finto più volte di essere incinta per scroccare un posto a sedere sull’autobus… proprio a me, mancava fare movimento.
Ho soffocato questo sentimento inedito e sospetto e ogni volta che il mio ex fidanzato mi diceva “andiamo a fare una camminata?” lo guardavo in cagnesco e rispondevo “Dai, vai vai….” e facevo uno splendido gesto con la mano che significare “va pure!”. Ma alla fine ho capito che non è poi una così brutta cosa, succede crescendo. Si scopre l’attività fisica, la natura, l’aria aperta. Si organizzano gite nei boschi, e d’estate si passeggia volentieri sul bagnasciuga invece di fare le lucertole al sole (e per fortuna, aggiungerei! Ho pure la vitiligine… pensate come posso essere bella rossa come un peperone!).
Poi è arrivata la trombosi celebrale, febbraio 2019 e per la seconda volta nella mia vita mi sono ritrovata a non poter camminare. Dopo i primi giorni di panico, mi sono calmata, e mano a mano che il movimento tornava alla normalità, mi sono ricordata di quando, appunto all’università, cadendo mi ero rotta l’osso sacro e per settimane non avevo camminato. La vocina interiore mi diceva che ero fortunata, e dovevo far qualcosa di diverso ed entusiasmante perchè camminare NON è scontato.
Ho assecondato la vocina che mi suggeriva di alzare le chiappe e uscire, di non aver aver timore di niente e nessuno, di ascoltarmi, di comprendermi, e di andare incontro a quello che mai avrei pensato potesse far parte della mia vita: le endorfine da sport.
Nell’incoraggiarla forse ho esagerato, perchè mi sono ritrovata a partire, ad agosto 2019 con uno zaino in spalla, sacco a pelo, orribili scarpe da trekking per 800 km da Saint Jean Pied de Port (vi prego non chiedetemi mai come si pronuncia) a Santiago de Compostela, completamente sola.
Ci si ritrova troppe volte a lamentarsi della propria vita, del proprio lavoro, perchè si è stanchi, frustrati senza mai chiedersi “ma se non ho la vita o il lavoro che mi piace, è davvero sempre colpa degli altri o forse io potrei fare di più, potrei pormi in modo diverso ed essere diversa?”. E vi assicuro, che in 800 km il tempo per leggersi dentro, e pensare che forse non siamo la preda di mille ingiustizie, c’è!
Per oggi basta così, sono talmente impegnata a girare intorno al tavolo, passare dalla cucina alla sala e dalla sala al letto che non credo di aver tempo per scrivere altro….:)
Proseguirò domani, raccontando un pezzo per volta. Questa è una storia vera. La storia di com’è andata, di cosa ho provato mentre camminavo, come all’improvviso mi è sembrato tutto chiaro, e di quello che, mettendosi in discussione, smettendo di colpevolizzare sempre l’esterno e ascoltando la vostra vocina interiore… potrebbe accadere anche a voi.
Sara